venerdì 29 marzo 2013

Domi mansit, lanam fecit

"rimase a casa e filò la lana" oggi diremmo: rimase a fare la calza, un lavoretto da niente, ripetitivo, senza importanza. Questo motto ci dice che i Latini non avevano una grande considerazione del lavoro da casa (e della donna in generale): l'importante era star fuori di casa, a dedicarsi all'occupazione più nobile: andare al circo o a far la guerra.
Oggi tutto è cambiato: grazie all'avvento delle tecnologie, donne (e uomini) possono da casa propria fare cose molto importanti: gestire processi, autorizzare spese, dare obiettivi, influire sulla vita delle persone. In molti paesi all'avanguardia il pigiama ha sostituito il tailleur  e molte carriere si svolgono in modo brillante tra persone che non si conoscono, né si conosceranno mai. Come altri hanno già osservato prima di me, sta avvenendo un grande cambiamento, anzi un grande ritorno: dopo la rivoluzione industriale che ha strappato i contadini alle loro terre e al lavoro famigliare  per stivarli nelle fabbriche e nei quartieri dormitorio,  con la rivoluzione Web 2.0 il lavoro sta rientrando nelle case. Già vedo delle analogie nei futuri comportamenti: come la famiglia contadina si riuniva intorno all'anziano per sentire il racconto delle avventure di guerra o le fiabe terribili e nel contempo le donne intrecciavano ceste di vimini, così immagino in futuro lo stesso anziano, se scampato al ricovero, raccontare con un antico powerpoint come si lavorava a contatto con la gente, quando c'era la possibilità di litigare, si metteva la cravatta, lo stipendio era il 27 del mese (chissà poi perché), si facevano i corsi di parlare in pubblico (che oggi suonano come i corsi di cucito), c'erano (a volte) gli scioperi e gli operai che ti impedivano di andare in ufficio, cosa ormai da tempo scomparsa. I bimbi ascoltano con gli occhi sgranati,  ma puntati sul loro iperphone olografico, mentre la mamma, con aria annoiata, approva la chiusura di uno stabilimento a Singapore.   

mercoledì 6 marzo 2013

Dell'organizzazione


Sto notando da parte di autorevoli osservatori del mondo delle organizzazioni, come l'amico Massimo Chiriatti,
http://massimochiriatti.nova100.ilsole24ore.com/
un rinnovato interesse sugli effetti del lavoro remoto e la produttività in azienda: in particolare concordo sul fatto che la fiducia, non solo tra individui, ma nella concezione dell'essere umano in sé, sia alla base dell'impostazione di un qualsiasi sistema organizzativo.
Richiamandoci alle ormai storiche teorie sviluppate Douglas McGregor (1906-1964) presso il MIT, sappiamo come la fiducia possa influenzare i rapporti tra le imprese e i suoi dipendenti.  Secondo la teoria X le persone persone attribuiscono al lavoro un carattere puramente strumentale per ottenere la retribuzione e quindi tendono a minimizzare lo sforzo per ottenerla.
In pratica, per il lavoratore X: se c'è da fare qualcosa, il server è giù, se deve prendersi una resposabilità,  devi parlare col capo o con qualcun altro che poi ti rimanda al primo interlocutore, se c'è una soluzione da prendere, è quasi sempre orientata ad evitare o aggirare l'audit.
Alla teoria X si contrappone la teoria Y, nella quale si ipotizza che le persone tendano ad assumere spontaneamente le responsabilità, abbiano per natura un atteggiamento di lealtà ed impegno, si identifichino con l'azienda, i suoi obiettivi e la professione esercitata.
Basta vedere le (poche) inserzioni di ricerca di personale, per constatare che la maggior parte delle imprese si riconoscono nel modello Y, dove ai livelli di responsabilità-comando-controllo dell'impresa gerarchico funzionale (X), si contrappone la flessibilità, senso di iniziativa, innovazione caratteristico del modello (Y).
Tuttavia, come riteneva lo stesso McGregor, i due modelli possono coesistere in una stessa impresa in percentuali diverse.
Se è piuttosto difficile passare da un modello di relazioni con il personale  di tipo X a un modello Y, per il fatto che i dipendenti non si fidano e mettono in pratica tutte le resistenze di cui hanno provata esperienza, non sembra altrettanto difficile passare da Y a X.
In estrema sintesi, tra le ragioni che possono riportarci a un modello "neo-tayloristico"  c'è innanzitutto la crisi che porta riduzione costi, incentivi, investimenti sulle persone; segue  la globalizzazione dei processi di business che richiede la standardizzazione delle attività, infine lo sviluppo della tecnologia web che ha reso meno costoso il controllo: oggi un impiegato disperso in una parte del mondo (naturalmente di quella parte che costa poco in termini di salari) può bloccare una qualsiasi procedura, indirizzare i comportamenti degli executive di un paese o di un'intera regione, decidere delle carriere e dello sviluppo delle persone.

Ma le caratteristiche dell'impresa tayloristica (X) (gerarchie,  livelli definiti di responsabilità, esecuzione di piani, lavoratori in ruoli puramente esecutivi) non sembrano caratterizzare le imprese di oggi, dove non contano più le "braccia", ma il "cervello",  i capi sono sostituiti dai team leader (project manager, stakeholders, opinion makers), il lavoro di squadra è meno importante rispetto alla capacità di stabilire relazioni "social" in ogni parte del mondo.

Forse ciò che accomuna il modello X con il vissuto attuale delle persone è quel "senso" di vuoto: che si traduce in una esigenza di senso in quello che si fa e di  responsabilità dei propri risultati.
 
Sembra che conti sempre di più "misurare una scarpa" che sapere dove va.... ma questa è un'altra storia.  











 

martedì 5 marzo 2013

delle tipologie di selezionatori


Selezionatore Indifferente
china, 1986

L'indifferente


Questi sono tra i primi disegni che ho fatto in azienda. Il tentativo era quello di spiegare ai candidati e ai rispettivi manager incaricati della selezione quali erano i comportamenti corretti da tenere per avere un efficace colloquio di selezione.
All'epoca non avevo ancora la titolarità di condurre i colloqui e quindi mi mettevo ad osservare i comportamenti di coloro dai quali avevo da imparare.

In particolare, mi colpì un manager della manutenzione che, per verificare se i candidati avevano iniziativa o meno, cadeva in uno stato letargico per alcuni minuti, aspettando che il candidato facesse la prima mossa. Erano tempi in cui il capo era il "capo", corredato di segretaria, ufficio chiuso, scrivania con brocca, medagliere ed onorificenze aziendali. Dall'altra parte, i candidati, giovani diplomati appena usciti dal rigore degli studi (era un'epoca in cui per iscriversi all'Istituto tecnico industriale si faceva la coda) e dal  servizio 'militare, avevano interiorizzato il comportamento per cui, di fronte a un superiore, si parla solo se si è interrogati.

I minuti passavano e queste sessioni di "surplace" risultavano interminabili: ad un certo punto, se il candidato non si muoveva, era il manager a cominciare, ma gran parte del giudizio era compromesso.

L'aggressivo




Selezionatore aggressivo
china, 1986
 Un altro tipo di selezionatore con il quale mi sono imbattuto è il selezionatore aggressivo. Per prima cosa si presentava mettendo in luce la sua posizione aziendale e indicandomi come il "direttore del personale" (in realtà ero un semplice impiegato) in modo che il candidato fosse ampiamente consapevole delle "autorità che aveva di fronte". Tra le domande più perverse ricordo quelle tecniche, i rompicapo carta e penna (probabilmente l'unico conosciuto dal capo in questione): "mi unisca questi nove punti con tre righe senza staccare la matita dal foglio...." Oppure:

Mgr.: Come sta ?
Cand.: Bene
Mgr.:Ho visto che ha fatto un test disastroso: come mai ?
(il candidato non poteva più portare come scusa che non stava bene).    

Ci fu un candidato molto brillante, tenne testa in modo maschio all'aggressività del capo, dimostrò è razionalizzò in modo esemplare i suoi pareri e le sue scelte e motivazioni, risolse in un lampo il quiz estemporaneo, raggiunse uno dei migliori punteggi nel test di logica.
"Ecco il candidato che fa per noi!" - disse il capo aggressivo - "spediamogli subito il telegramma di assunzione!"
Il candidato rinunciò all'offerta: non vedeva ragioni per finire a lavorare in un ambiente dove i capi trattavano in questo modo i collaboratori.  

L'amicone


                                     

Il capo amichevole permette senz'altro un incontro simpatico e cordiale....ma occorre fare attenzione: alla cordialità non è detto che corrisponda una reale valutazione positiva del candidato/a. Bisognerebbe sapere distinguere tra il sorriso e il tic nervoso, ma non è sempre facile in queste situazioni. Di sicuro una cordialità eccessiva tende a far travalicare le barriere di una situazione, come il colloquio, a ruoli definiti. Il candidato si fa prendere la mano e spesso le conseguenze non sono positive.

L'impegnato 


Il capo super impegnato è una delle caratteristiche più frequenti:
 nel mio disegno dell'epoca la rete non esisteva ancora e quindi il nostro era alle prese con "solo" due telefoni: figuriamoci oggi!
Il capo che si comporta in questo modo raramente riesce ad ottenere una visione oggettiva delle capacità del candidato e dà scarse possibilità a questi di esprimersi.  



Lo Story-teller

Infine, ecco un'altra tipologia di manager - slezionatore piuttosto frequente: il raccontatore di storie. Al di là di una genuina e salutare volontà di illustrare al candidato l'azienda e il tipo di lavoro, lo story teller, quando esagera, manifesta la sua necessità di esibire sé stesso in quanto non ha più molte opportunità di farlo nel contesto aziendale. Può anche capitare il selezionatore che non sa bene che domande fare e quindi tende a riempire lo spazio. Anche in questo caso, come negli altri, è difficile che abbia una visione oggettiva delle competenze e capacità della persona che ha di fronte. In generale il candidato che sa manifestare un ascolto attivo, rinforzando ogni tanto l'ego del selezionatore con qualche gridolino di approvazione può avere delle ottime chances di passare il colloquio.  

Nota di costume:

Avrete notato che nel 1986  i selezionatori erano tutti maschi, bianchi, eterosessuali, dotati di un ufficio con pareti, privi di tecnologia e, nell'ultimo caso, addirittura un fumatore! Ciò non è dovuto ad alcuna discriminazione da parte mia: anche i capi donna erano inseriti, con pari dignità, nel processo di selezione. Anzi, ricordo una dirigente di Roma che, con sagacia, mi fornì la sua franca opinione sulle tecniche di selezione a suo tempo impiegate: "A Paoloo, ma sta selezzione me sembra tanto 'na questione de culo....."